Con surreale e probabilmente involontario umorismo, l’ex Husker Du Grant Hart lo definì una volta “il miglior rock club di Mezzago”. Qualcun altro, un faro piantato nella nebbia della Brianza (chi c’è stato d’inverno, sa di cosa si parla). Fatto sta che il Bloom, che questa settimana compie venticinque anni giusti giusti, è diventato nel tempo una piccola leggenda, un simbolo, persino un brand . Il music club italiano più importante degli anni Novanta, se si parla di rock alternativo, messo in crisi nel decennio successivo dalla concorrenza di più danarosi locali milanesi mai poi risorto mentre le venue rock del capoluogo lombardo chiudevano una dopo l’altra.
Le celebrazioni sono già cominciate, il 25 aprile con un concerto dei norvegesi Motorpsycho, e proseguiranno fino al 21 con uno show di un’altra band storica, i Mudhoney di Seattle. La settimana clou, però, è questa, con un concerto “a sorpresa” in programma stasera (giovedì 10 maggio), una serata gratuita all’insegna dello ska/punk (l’11) con Punkreas, Pornoriviste, Derozer e Vallanzaska, un party/dj set sabato notte (12) con Roberta dei Verdena alla console e infine la presentazione, domenica 13, del libro “Sviluppi incontrollati – Bloom Mezzago crocevia rock“, in cui i cofondatori Aldo Castelli e Massimo Pirotta ricostruiscono e ricordano con l’aiuto di amici, giornalisti e musicisti concerti e aneddoti che hanno fatto la storia del Bloom.
“Ma ci sarà anche altro: uno spettacolo teatrale, proiezioni cinematografiche, un mercatino con i manufatti realizzati da artigiani locali. Perché il Bloom ha sempre avuto molte facce”, spiega Stefano “Billa” Brambilla, che dal 2009 si occupa della programmazione e dellla direzione artistica del locale (gestito da una cooperativa che oggi conta dodici dipendenti). Troppo giovane, con i suoi ventisei anni, per avere vissuto in prima persona certi momenti topici. “I miei primi concerti da spettatore al Bloom”, ricorda, “risalgono a quando avevo sei o sette anni. Mio padre mi portò con sé a vedere i Punkreas, e poco dopo i Buffalo Tom. L’illuminazione avvenne più tardi, quando feci il volontario a un concerto degli Afterhours che i gestori del locale avevano allestito alla Cascina Monluè di Milano. Mi misi a organizzare concerti di rock americano nell’area brianzola, portando gente come Joe Ely e Joe Bonamassa, e poi inattesa arrivò la chiamata del Bloom. Avevo ventitrè anni e mi diedero carta bianca. Ero l’uomo più felice del mondo”.
Dei concerti storici del Bloom– i Green Day, i Primus, i Sepultura, le due ormai leggendarie esibizioni dei Nirvana – ha sentito parlare così tante volte da poterli raccontare come se li avesse visti con i suoi occhi. Specie quelli di Kurt Cobain e compagni: “Il primo show dell’89, ai tempi di ‘Bleech’, si svolse davanti a una cinquantina di persone. Allora non c’erano i runners che portano gli artisti in albergo e al ristorante, i tecnici lavoravano anche al bar e dovevi aspettare che finissero il turno perché ti portassero a dormire. Così Cobain, Grohl e Novoselic si misero loro stessi a sparecchiare per fare più in fretta… La seconda volta, nel ’91, era l’epoca di ‘Nevermind’ e quella volta i gestori del Bloom i Nirvana non li videro neanche, attorniati com’erano dalla folla, dai giornalisti e dalle telecamere. Mi hanno raccontato che durante ‘Smells like teen spirit’ venne giù il locale: c’era più gente per aria che con i piedi per terra“.
Ma anche “Billa” ha la sua bella sfilza di aneddoti da tramandare ai posteri. “Ricordo un incredibile soundcheck dei Dap-Kings di Sharon Jones, i cui quegli straordinari musicisti si fecero accompagnare alla batteria dal nostro barista. Lo capimmo solo quando salirono sul palco per il concerto vero e proprio, che avevano giocato a scambiarsi gli strumenti. Erano la backing band di Amy Winehouse, eppure sono le persone più tranquille e gentili di questa terra. Come Steve Albini e gli Shellac, che si sono montati e smontati gli strumenti da soli: veri antidivi che a fine serata si sono presi la briga di riportarci persino gli asciugamani…Ricordo un episodio divertente con protagonisti Dente e la sua band: scambiati per ladri dal portiere dell’albergo, la notte di Natale, perché indossavano i cappucci. Ricordo i Lacuna Coil che, ormai abituati a suonare davanti a ventimila persone, da buoni brianzoli ti chiedono la locandina del loro concerto. E gli Afterhours che scendono dalla macchina con la chitarra in mano, pronti ad accompagnare Steve Wynn con l’entusiasmo di ragazzini alle prime armi”.
Cosa ha reso il Bloom così speciale? “Era uno dei pochi club in Italia a fare un certo tipo di musica, negli anni ’90. I gestori erano intraprendenti, erano stati a Londra e volevano portare qui quel che avevano visto nella capitale inglese. C’era una volontà precisa di puntare su artisti non ancora famosi che, venendo qui, sapevano di trovare un impianto di amplificazione adeguato e un pubblico attento. Il Bloom ha cavalcato in pieno l’emergere della scena punk italiana: Punkreas, Shandon e tanti altri sono nati da queste parti. E ancora oggi”, sostiene Brambilla, “chi sale sul nostro palco ha ben presente la sua storia. I Motorpsycho mancavano da quattordici anni, ma quando il 25 aprile sono tornati qui per la nona volta ne erano felicissimi: il loro concerto è andato sold out con un mese e mezzo di anticipo, per vederli è arrivata anche gente da Mosca. C’è sempre stata un’atmosfera particolare, al Bloom… In un’intervista ripresa nel libro, Mark Lanegan ricorda di quando lui e il suo gruppo arrivarono stanchi e infreddoliti in quello che gli apparve come nient’altro che una specie di garage. Ma poi, una volta che cominciarono a suonare, vennero travolti dall’energia esplosiva del pubblico, e Lanegan ricorda ancora quello show come uno dei suoi migliori di sempre”.
E come ha fatto, il Bloom, a risorgere dopo un periodo di crisi? “L’eredità storica del locale e la competenza del suo pubblico restano un valore aggiunto. A quel patrimonio abbiamo cercato di aggiungere una ventata di modernità, coprendo un ampio ventaglio di generi. E così ora proponiamo ogni sera un genere di musica differente: non solo il rock, l’hardcore punk e il blues per cui il locale è principalmente conosciuto, ma anche elettronica e drum’n’bass, reggae e dub, new wave e parties con musica da ballo e deejay alla console. Ci ha aiutati il fatto che a Milano, oggi, sono pochissimi i locali che possono permettersi una programmazione competitiva allestendo concerti che non abbiano l’obbligo di terminare entro le 11 di sera”. Eppure questi sono tempi duri anche per la musica dal vivo.
Come si sopravvive? “Con la varietà della programmazione, appunto, e facendo anche altro: film, corsi, conferenze, festival. Quando va bene si pareggia o si porta a casa un piccolo incasso, anche perché la nostra capienza è limitata a 4-500 persone. E quando va male…va male. E’ il problema di tutti i locali, noi non facciamo eccezione. Quando programmiamo date esclusive di artisti stranieri non ci sono problemi. Con i musicisti italiani che girano più spesso in tour le cose possono risultare più problematiche perché la gente, con meno soldi in tasca, è diventata più selettiva. Però siamo riusciti a fare cose che due o tre anni fa sembravano impensabili: abbiamo avuto i Melvins, gli Architecture in Helsinki, i Nada Surf, gli Spin Doctors, i Verdena, prossimamente (il 18 maggio) i Lemonheads. E sono orgoglioso di avere ripristinato una rassegna di blues, rilanciando una antica tradizione del Bloom. Anche questi eventi, che organizziamo una volta al mese, fanno regolarmente il sold out”. Resta qualche sogno proibito nel cassetto? “Se si tratta di sognare, mi sbilancio sull’impossibile e dico Who. O i Rage Against The Machine, che all’epoca vennero scritturati ma poi finirono per suonare altrove”.